2017: La vita o la si vive o la si racconta

PREMIO
Qualità

 1° classificato: SALVATORE DARIO D’ANGELO alias GELANDO ARIDO per aver raccontato con indulgente ironia e una scrittura minimalista la inetta quotidianità di un “uomo senza qualità”, somigliante a uno, nessuno e centomila.
2° classificato: EMILIANO DOMINICI alias MEMI LIONI per aver raccontato con una scrittura asciutta e precisa la scoperta della vita e della morte attraverso lo sguardo precocemente consapevole di un bambino che diventa dolorosamente adolescente.
3° classificato: STEFANIA VOTA per lo stile surreale con il quale l’autrice ci racconta le vite plurime e scambievoli di Carneeossa, una creatura astratta e volubile che però tutti ci comprende.

 GELANDO ARIDO

“Lei non ha figli?”
Alfredo abbassa un po’ lo sguardo poi riprende a parlare d’altro.
Gli sembra che quella storia di cui stavano discutendo sia poco plausibile, montata a dovere per dimostrare che nessuno si salva, che tutti sono uguali. L’uomo con cui sta dialogando da più di un’ora riprende allora a elencargli date e avvenimenti, ma Alfredo non lo segue più.
Quando sente la voce di quello spegnersi dice solo: “Ecco adesso mi è più chiaro” e si alza come si fosse ricordato in quel momento di qualcosa di importante da fare.
“È stato un piacere” aggiunge salutando. L’altro lo ferma porgendogli la mano.
“Potremmo vederci domani, lei viene spesso qui?” domanda.
“A volte” risponde Alfredo e si allontana.
Il sole è già andato via e l’aria è più fresca. Alfredo chiude il cappotto e sistema meglio il cappello sul capo. Sull’autobus che lo porta verso casa poche persone: un giovane immigrato che guarda passare le vetrine, una badante con una busta da supermercato sdrucita poggiata a terra tra le gambe, due ragazzi che si annusano innamorati.

Capita che Alfredo sia molto distratto. È facile per lui perdersi dietro il contorno di una nuvola o inseguendo una coccinella che lenta si arrampica sul muro. Capita.
È successo anche oggi, mentre qualcuno gli parlava di catapecchie bruciate, di morti.
“Sono bruciati in due, gli altri li hanno cacciati via. Ci sono i caporali lì… e poi tutte quelle baracche… Come in Africa! Che vergogna!”
Alfredo era altrove. Il fatto è che qualcosa tra i rami dell’albero di fronte a lui pareva brillare e Alfredo non riusciva a stabilire se quel luccichio fosse dovuto a un piccolo raggio di sole che filtrava tra i fitti aghi o ad un semplice riflesso dovuto a qualcosa rimasto impigliato tra i rami, magari un oggetto portato lì dal vento gentile o da un uccello innamorato. Forse era solo una lacrima, una vecchia ferita della pianta oppure lo scherzo di una strana prospettiva che giocava a ingannarlo.
“Cosa ne pensa?” chiese quello e ad Alfredo sfuggì un incauto: “Dobbiamo vedere, sarebbe meglio guardare con più attenzione”
I due si salutarono poco dopo.

Alfredo aveva tentato di afferrare qualcosa di utile tra tutte quelle notizie che gli erano piovute in testa come pioggia battente.
Era ancora a tavola. Era stato invitato a cena da una sua vecchia amica e la loro conversazione, fino a quel punto abbastanza piacevole, era stata interrotta da un’espressione di sorpresa sul volto di lei (alla veloce lettura seguita a un bip d’avviso del cellulare) e dall’immediato arrivo (dopo un’affannata ricerca del telecomando) di un torrente di voci a commentare l’ennesima strage.
La televisione era alle sue spalle, ma lui non si era nemmeno voltato a guardarla. Piuttosto aveva atteso paziente che lei si decidesse a ritornare al loro incontro.
“È incredibile, è incredibile” continuava a mormorare la donna. E poi:
“Ma come fai? Come riesci a non preoccuparti?
Alfredo aveva alzato le spalle per poi riprendere a cenare da solo.
Il pesce era proprio buono, gli sembrava fosse anche un ennesimo affronto alle vittime e ai carnefici rovinarlo

Il sole è appena tramontato, una luce affiora fioca da dietro i palazzi illuminando ancora un poco il cielo. È il vespro.
Alfredo toglie gli occhiali, guarda lontano. Tutto gli appare indistinto, spariscono i contorni. Le luci delle case, delle strade, tremolano come stelle. A volte Alfredo viene così preso da quel paesaggio che raggiunge per un attimo la sicurezza di farne parte. Di essere anch’egli mondo.
Da piccolo una volta la maestra gli aveva chiesto di disegnare con un gessetto la città su di un cartoncino nero.
“Ora ritaglia i contorni escludendo il cielo” gli aveva poi detto lei prima di invitarlo a scegliere un nuovo cartoncino.
“Prova a incollare il primo sul secondo”
“Così?” aveva chiesto Alfredo, guardando il cartoncino arancione scelto.
“Prova a capovolgerlo” aveva suggerito la maestra.Improvvisamente erano sparite porte, finestre, strade e palazzi. Un indistinto nero su cui la donna aveva applicato polverosi punti di luce subito sfumati dai polpastrelli delle sue dita lunghe e sottili. Alfredo si accorse per la prima volta che la maestra non portava lo smalto sulle unghie.

Alfredo ama la gente, tutte le persone che incontra o conosce, anche se spesso questo amore somiglia a quello dell’etologo per le sue creature.
Il fatto è che ad Alfredo piace osservare gli umani. Passerebbe ore a spiarne i movimenti, a sentirne le parole, a immaginarne l’anima. Tutto questo avviene senza che egli dia alcun valore morale alle azioni sviluppate dal suo oggetto di studio. Alfredo è sempre pronto a giustificare, a razionalizzare qualsiasi scelta, qualsiasi pulsione.
Certo questo tirarsi fuori nel momento dello sguardo non gli impedisce, quando egli stesso rientra negli osservabili, di criticare, di esprimere giudizi, di partecipare attivamente al proprio presente, poiché anche il suo vivere è un personalissimo caso di studio.

È mattina.
Ora Alfredo ascolta alla radio Alice Sara e nel frattempo pulisce le sardine acquistate il giorno prima, in offerta, al supermercato.
Sembravano ancora fresche e lui aveva proprio voglia di pesce.
Sotto le sue dita i piccoli animali si aprono delicatamente e con pazienza Alfredo toglie loro le viscere, la lisca, la testa appuntita.
Nella cucina piena di sole Chopin lo accompagna e tutto pare abbia un senso, una dolcezza infinita.
Anche quelle povere vite, a cui ha già chiesto perdono, brillano. Sul tavolo un bicchiere, dei biscotti, una bottiglia ancora chiusa di vino.

MEMI LIONI

TRE ANNI
Avevo tre anni. Ricordo che piansi per tutto il tragitto che io e mia madre facemmo a piedi da casa all’asilo, da un quartiere all’altro. Ci fermammo al passaggio a livello chiuso. Odiavo ogni volta che lo trovavo chiuso, ma quella volta no, sperai che le sbarre non si alzassero più, che il treno deragliasse e che si bloccasse la strada. Il treno, però, sfrecciò indifferente e le sbarre si alzarono per lasciarci passare. Posso ancora sentire il calore della sua mano, calma ma ferma, che stringeva la mia, come a impedirmi di staccarmi da lei e correre indietro fino a casa. Ricordo il suo vestito a fiori e il mio grembiulino. La maestra Maria, bionda, fumatrice, accolse i bambini all’ingresso, io piangevo e non volevo separarmi da mia madre. La maestra mi porse una macchinina, un modellino rosso della Ferrari. Per prenderla lasciai la mano di mia madre, lei si chinò su di me, mi diede un bacio frettoloso e andò via. Sarà per questo che ho sempre odiato l’automobilismo.

CINQUE ANNI
Avevo cinque anni, era una giornata calda. Dopo pranzo uscimmo tutti in giardino. Io, Gabriele, Cristina e Susanna giocavamo alla famiglia: Gabriele e Cristina, che erano più alti, erano i genitori, io e Susanna i figli ribelli che scappavano di casa. A un certo punto Susanna vide un’altalena libera, abbandonò il nostro gioco di ruolo e si fiondò a dondolarsi come una furia. Per farci dispetto staccò le mani dalle catene dell’altalena e ci fece un gestaccio. Cadde rovinosamente sul ghiaino. Aveva il viso e il grembiulino pieni di sangue e non riusciva a smettere di piangere. Tendeva le braccia in avanti perché qualcuno la aiutasse. Gabriele e Cristina si allontanarono disgustati, io invece mi avvicinai per soccorrerla, ma la maestra mi tirò via bruscamente, dicendomi che mi sarei macchiato di sangue anch’io, e poi chi la sentiva, mia madre. Rimasi lì a guardare Susanna che veniva portata in infermeria. Poi, invece di tornare a giocare coi miei amici, andai sull’altalena libera e rimasi lì a dondolarmi da solo, lentamente. Era l’ultimo giorno d’asilo.

SEI ANNI
Avevo sei anni. Il primo giorno di scuola arrivai in ritardo. La bidella mi accompagnò davanti alla porta della classe. Non bussò lei, lasciò farlo a me mentre lei si allontanava. “Avanti”. Era la voce che avrei imparato a conoscere così bene per i successivi cinque anni. Aprii la porta. “Cominciamo bene” disse la maestra. “Come ti chiami?” “Armando” dissi io. “Armando, c’è rimasto soltanto un posto libero, mettiti là”, e indicò una sedia vuota in fondo alla stanza, accanto a una bambina che aveva le unghie molto corte, ma soltanto di una mano, avrei scoperto presto perché. Aveva un modo di scrivere buffo, faceva le pancine delle B alla rovescia. Quando doveva copiare dalla lavagna, cominciava a mordersi furiosamente le unghie della mano sinistra, mentre con la destra provava a scrivere. La maestra, quando le controllava il quaderno, le metteva sempre dei freghi rossi, e in fondo scriveva benino. “Vorrei prendere bravissima, una volta”. Io presi la mia penna rossa e scrissi bravissima in fondo al suo dettato. La maestra lo vide e lo cancellò.

SETTE ANNI

Avevo sette anni. Vivevo in una casa povera ai margini della città, quando pioveva bisognava mettere le catinelle per raccogliere le gocce che filtravano dal tetto, il bagno era all’esterno, non aveva lo sciacquone, ogni volta dovevamo versarci un secchio d’acqua. I miei compagni di classe, i loro genitori, la mia maestra, le bidelle non si capacitavano di come io potessi essere un alunno così bravo pur venendo da una famiglia tanto modesta, pur vivendo in una casa tanto brutta. Lo vedevo il modo in cui mi guardavano. Io stavo sempre zitto, ma ero bravissimo con le tabelline, scrivevo pensierini pieni di fantasia. Qualcosa non tornava. Un giorno ci fu la visita medica a sorpresa, mi trovarono i pidocchi in testa. Tutti dicevano “Visto? Cos’altro c’era da aspettarsi?”. Mi rasarono i capelli a zero e potei tornare a scuola. Scrissi un tema. Non parlava della primavera, non parlava della mamma, non parlava dell’arcobaleno. Parlava di un bambino che voleva partire e andare lontano. Detti un nome a quel bambino. Si chiamava Libero.

UNDICI ANNI

Avevo undici anni. Mi ero trasferito da un quartiere popolare all’altro, ma l’ultimo era più minaccioso. Era un quartiere di casermoni nella periferia sud dove avevano trovato alloggio le famiglie meno abbienti e più scalcagnate della città, qualcuna proveniente dalle baracche. I miei coetanei erano tosti, c’era già chi fumava in prima media. Io non conoscevo nessuno, cercavo di rendermi invisibile, ma spesso non bastava. Avevo un fisico minuto e un modo di fare che mi rendeva la vittima perfetta di quello che oggi si chiama bullismo. Per fortuna avevo quel po’ di arguzia e di ironia che mi salvavano spesso dalle situazioni più critiche. Una volta, fuori dalla scuola, un gruppetto di ragazzini minacciò di picchiarmi perché, secondo loro, il giorno prima avevo fatto casino girando in bicicletta davanti a casa loro.
“Siete sicuri che ero io?”
E loro: “Sì, eri te”.
“Ed ero in bicicletta?”
“Sì, una graziellina col contropedale”.
“Ma siete sicuri sicuri?”
“Sì, perché?”
“Perché io in bicicletta non ci so andare”.
È vero, mi presero in giro, ma almeno non mi picchiarono.

TREDICI ANNI
Avevo tredici anni. Mi stava cambiando la voce, a scuola mi chiamavano ranocchio. Un’acne devastante cominciò a segnarmi il viso, il naso, la fronte. Tornando da scuola mi fermavo sul ciglio di un fossato. Passavo le ore a pensare al fatto che la vita dovesse finire. Mi sembrava assurdo ma non sapevo spiegarmi il perché. Sentivo solo che i conti non tornavano. Chiesi a mia madre, mi disse: “è la natura”. Chiesi a un professore, mi disse: “ma c’è Dio”. Chiesi a mia sorella, mi disse: “sei il solito sfigato”. Non chiesi più a nessuno. Accucciato lungo l’acqua torbida, guardavo le libellule cromate, i fiori gialli, i girini che sarebbero diventati rane: tutto sarebbe finito. E mentre pensavo alle piante, agli animali, a mia madre, a me che sarei finito, sentii una spinta violenta dietro la schiena e caddi nell’acqua fredda e sporca. I miei compagni di classe sghignazzavano, dicevano “ecco, lì ci stai bene, ranocchio”. Io non piangevo, anzi, dentro di me ridevo ancora più di loro. “Finirete anche voi. Poveracci. E ancora non lo sapete”.

STEFANIA VOTA

SI NASCE PIANGENDO. SI MUORE DAL RIDERE.
Si nasce piangendo, ma Carneeossa, alla soglia dei cinquant’anni, è giunto alla sua verità: morirà dal ridere.
Lo sbellicheranno la presunzione degli incompetenti e l’ipocrisia delle mutrie giudicanti, che, senza scrupoli né pudore, inferiscono urenti etichette e condanne a seconda del vento.
Lo sganascerà la comicità dei leziosi siparietti inscenati dai piccolo-borghesi illusi di esercitare potere manipolando gli ospiti del loro salotto, orgogliosi di avere il giardino più verde del confinante, smarriti ai confini di anestetiche certezze, dimentichi della profondità del cielo.
Lo sbudelleranno i sedicenti rivoluzionari bravi solo a cambiare gregge.
Lo spancerà il patetismo dei sempre e dei mai pronunciati dal delirio narcisistico e dei rituali dettati dalla paura del finale.
E si ammazzerà dalle risate quando, per l’ennesima volta, incrocerà allo specchio un vecchio ammuffito rancore non rivolto a se stesso.

CARNE, OSSA E OSSIGENO
Questo appuntamento di lavoro potrebbe fornire un ulteriore slancio alla sua già formidabile carriera.
È una di quelle rare volte, nei suoi trentanove anni, in cui Carneeossa si sente assalito dalla tensione e insicuro al punto da credere che fallirà il tentativo. Alla guida della sua invidiata auto sportiva, percorrendo il tragitto dal suo ufficio alla sede centrale dell’azienda potenziale cliente, approfitta dell’arresto al semaforo rosso per allentare il nodo della cravatta firmata, prendere un profondo respiro e lasciar cadere le palpebre per due secondi. Quando riapre gli occhi, vede sullo sfondo del denso traffico cittadino in cui si trova puntualmente immerso, figuranti di uno spettacolo muto che non aveva mai notato prima: il volto sorridente di uomini anziani seduti sulle panchine, divertiti dalla frenesia dei passanti; l’andatura trascinata e la gestualità lieve di una donna dai capelli di neve e la pelle di carta velina stanca, un’immagine perfettamente asimmetrica all’inquietudine generale.

CARNE, OSSA E PAILLETTES
Man mano che il sonno le appesantisce le palpebre, decide di concedersi una tregua. Delle proprie paure, stanotte Carneeossa ne fa sfarzose paillettes rosse; intonando Suspicious minds ad occhi chiusi, le cuce con un filo di voce su un abito lungo, che indossa insieme a dei rumorosi tacchi alti, e cammina tra sogni di lui sperando che la noti. L’ambientazione è un po’ kitsch ma allegra: su un palco si esibisce Elvis Presley, vestito di una giacca di accecante lamé argento dai mille bagliori cangianti. Ad un certo punto il Re smette il suo divertente rock and roll, le luci si abbassano e inizia una sdolcinata ma romantica canzone, Love me tender.

Finalmente egli le va incontro e la invita a ballare.
Camminava tutto solo per i viottoli del parco comunale, cercando di fare ordine tra le sue confuse idee di diciottenne, preoccupato di prendere le decisioni giuste per il suo futuro.
Si sedette su una panchina e, dopo un po’, si accomodò sulla stessa un signore che mostrava di avere almeno ottant’anni. Iniziarono col parlare del tempo atmosferico per poi inoltrarsi in un ginepraio di riflessioni esistenziali.
Prima di congedarsi, il vecchio gli disse che la vita è bella. Considerata la veneranda età dello sconosciuto, Carneeossa, nonostante le proprie incertezze, pensò che fosse vero ciò che sosteneva o che, comunque, così convenisse pensare.

 

PREMIO SPECIALE
Digital Evergreen

 Nell’era della civiltà digitale è sorto nelle giovani e giovanissime generazioni uno spiacevole equivoco dovuto, come per molte altre cose, a ignoranza storica: la persuasione che tutto ciò che ha a che fare con la tecnologia digitale non “non è roba per vecchi”, per parafrasare il titolo di un romanzo e di un film famosi.
Ovviamente chi la pensa in questo modo non conosce la storia dell’evoluzione digitale. Soprattutto dimentica, o ignora, che la generazione che oggi oscilla fra i settanta e i novant’anni ha iniziato a usare quotidianamente il Personal Computer, per lavoro o per diletto, da quando questo strumento è stato immesso sul mercato, cioè dagli anni Ottanta del secolo scorso. Questa stessa generazione, ovviamente ha continuato poi a seguire il progresso della strumentazione digitale e a usarla. Nello stesso tempo, però, non ha dimenticato l’esistenza e la bellezza dei libri, il piacere della lettura e quello della scrittura e il valore vitale della trasmissione della memoria.
Il Premio Antonio Fogazzaro 2017 assegna il Premio Speciale Digital Evergreen ad Alberto Albertini, classe 1927, per i suoi contributi di microletteratura, un meditato dialogo con se stesso nella continua ricerca del senso della vita.

ALBERTO ALBERTINI

INCERTEZZE
Accidenti, il figlio, ormai in età, non gli assomigliava, non gli era mai assomigliato, ma mai aveva avuto dubbi sulla moglie, dunque. Però che certezza poteva avere, in fondo della moglie si era ciecamente fidato ma la certezza certa è un’altra cosa. Uno pensa che le cose stiano come le vede lui invece se si sofferma un minuto ad entrare nell’altro, l’altro potrebbe essere altro. Che cavolata, sconvolgere la vita dopo quarant’anni! Il figlio ormai era diventato suo, che cosa conta, l’origine genetica o ciò che sentiva per lui? Il legame instaurato ormai indissolubile, un’appartenenza sentita valevano un’inutile verità? E la moglie? Tutto lontano, che cos’è il reale? Esiste davvero? In fondo conta la vita.

LA CAMICIAIA
Osvaldo passava spesso in quella via. Centro storico, piccoli negozi pretenziosi ricavati in vecchi edifici. Strade strette, vicoli laterali. Sulla via principale c’era un negozio che attirava l’attenzione di Osvaldo, una camiceria: si eseguono camice su misura.
Osvaldo pensava: la solita vecchia attività, padrona del locale, la camiciaia non aveva interesse né necessità di andarsene. Almeno finché non ricevuto un’offerta che non poteva rifiutare.
La camiciaia, carnosa, era racchiusa con un po’ di tensione in un grembiule da lavoro bianco abbottonato sul davanti. Poco rossetto capelli raccolti dietro. Assolutamente professionale. Gli prese le misure con diligenza, le annotò su di un blocchetto.
In capo a due settimane ebbe due camicie assolutamente perfette ad un prezzo modico.
Ora erano passati un po’ di anni e Osvaldo aveva avuto nuovamente occasione per passare di lì. La camiceria non c’era più, evidentemente aveva avuto la buona offerta! Intanto ripensava a quanto tempo c’era voluto per capire che le camice le facevano i cinesi e lei si prostituiva.

DECADENZA
Nacque stanco, crebbe detestando gli impegni, le fatiche. Nell’azienda sedeva a destra del padre ma non faceva niente. Anche le donne, l’iniziativa dovevano prendersela loro, poiché era bello ne valeva la pena. Morto il padre vendette la fabbrica e programmò la durata della sua vita e le spese in modo di poter vivere con quanto aveva incassato. La più intraprendente delle sue amiche lo cavalcò con furore e ne rimase incinta: avrebbe dovuto lavorare!

IL LAGO
Il lago era il nostro mare. Diversamente dal mare sapeva di lago, un odore che muta secondo il tempo. Il tutto abbastanza leggero e preciso quanto basta per accorgersi di essere in prossimità del lago. Il lago di Lugano. Calmo, piatto, raramente increspato, distensivo, un luogo della fantasia che suscita desideri forse non desiderati veramente: La casa sul lago, la finestra sul lago, la barca sul lago. Luogo di meditazione, di riflessione e maturazione di idee. Quante cose avremmo potuto fare nella casa sul lago! Ma se poi fosse stato noioso? Noi, concretamente ne facevamo un uso moderato e a nostra discrezione, quanto bastava per fare il bagno, prendere il sole e soprattutto parlare con le ragazze che in costume da bagno non potevano più trarci in inganno sulla loro consistenza, ignorando ingenuamente di essere noi ragazzi, passati per un setaccio dalle trame molto fini.

IL CRITICO
-Non c’è niente da fare, questa roba non si vende più! E allora che cosa mi metto a fare? Le tele coi buchi? Le hanno già fatte!
-all’epoca dei mercanti era tutto più facile. Essi sceglievano chi doveva vincere e facevano il prezzo. Diamine, se loro stabilivano il valore, chi avrebbe dubitato che l’opera non valesse tanto…
Ma esiste l’arte? Che cos’è?
Un bisogno iniziato graffiando le rocce, poi la Cappella Sistina poi, invece il tentativo di rappresentare i concetti invece che gli oggetti: torneremo a scrivere sui sassi, se ne troveremo ancora… se dipingi una cipolla e gli altri vedono una cipolla, non hai fatto un’opera d’arte. Se invece vedono tutto fuorché una cipolla, hai raggiunto il tuo scopo!
per quel che ho capito io, gli artisti cercano di dipingere solo al di là della cipolla, così non si vede più neanche la cipolla!
Una logica raccapricciante!
La questione è sempre aperta, vedi per esempio il Wanderson, con le sue linee infinitesimali, tentò di aprire nuove strade ma rimase o incompreso o inaridito dai limiti della sua proposta, o il Sukosamy con gli spazi sospesi, non finì diversamente.

PREMIO
Mi piace

 La giuria popolare della pagina di Facebook assegna la vittoria ai seguenti componimenti:

È tempo di vivere di Alvaro Tanganelli (21 “Mi piace”)

2° Il teatro delle operazioni di Rene’ Miri (20 “Mi piace”)

 

 

ALVARO TANGANELLI

È TEMPO DI VIVERE
I suoi occhi erano bagnati, si capiva che aveva pianto. Tutti abbiamo pianto qualche volta, ma tutti abbiamo anche riso spesso. Lei non riusciva più a ridere, non riusciva a superare la perdita del suo uomo. No, non era morto, se n’era andato, l’aveva lasciata lì ad aspettarlo e non era più tornato. Credo che sia un po’ come perdere un pezzo di se stessi, all’improvviso così senza un motivo. Io cercavo di consolarla, le dicevo che la vita deve continuare, che anche la delusione più grande fa parte della vita. Lei mi ascoltava, sembrava capire, ma poi se ne andava con gli occhi bagnati. “Guarda come è azzurro il cielo, come è bello questo prato fiorito e come può essere ancora splendida la vita, non arrenderti.” Questo è ciò che le dissi quel giorno in cui lei mi rispose: “È tempo di vivere!” In quel momento sul suo bel viso si accese uno splendido sorriso.

UNA DOMENICA INDIMENTICABILE
Quelle case di campagna degli anni cinquanta con le piccole finestre che non riuscivano a trattenere il vento freddo dell’inverno. Sono nato lì in quelle colline che ho amato moltissimo e che amo ancora. Avevo i miei zii che abitavano in una vallata al di là della collina, il posto era bellissimo e vicino c’era un ruscello con i pesci. Desideravo tanto andare a trovarli e una domenica mia madre mi disse: “Oggi andiamo a mangiare dalla zia”. Non potete immaginare la mia gioia, ero felicissimo. Ci incamminammo per il piccolo sentiero che portava sulla strada. Dopo una bella salita, arrivammo in paese e poi iniziò la discesa verso la casa di mia zia. Ai bordi della strada c’erano alberi fioriti e profumi inebrianti, colori e vita. Ad un certo punto sentii un odore di sugo, un odore inconfondibile, un odore che amavo, un sugo che solo mia zia sapeva fare. Ci furono baci e abbracci, poi io corsi verso il ruscello a vedere scorrere quell’acqua pura e così fresca. Ero certo che quello fosse il Paradiso.

MUSICA
Un giorno passeggiando in città, un dolce suono attirò la mia curiosità, dietro l’angolo della strada si presentò ai miei occhi una bella immagine; un uomo alto con uno strano cappello in testa ed un violino appoggiato alla spalla, la mano muoveva l’arco in modo divino. Lo guardai negli occhi e cercai di vedere la sua sofferenza, ma mi sbagliavo, non vidi nessuna sofferenza nei suoi occhi, ma lo sguardo fiero di chi conosce  la vita come le sue tasche. Un uomo che a dispetto delle sue tasche vuote mostrava di avere una vita piena di quella cosa che amava di più “la musica”. Restai lì ad ascoltarlo come si ascolta un grande artista, pensai che un grande artista si giudica dal cuore, dalla passione che mette nel fare la sua opera. Ero felice di aver percorso un piccolo spazio di tempo insieme a lui. Perché non è il tempo, che passa, ma noi che passiamo nel tempo. Anche quando noi non saremo più in questo tempo, la musica continuerà a suonare nei tempi che verranno.

DIETRO ALLE SPALLE
Era quasi buio su quella spiaggia, davanti a me sentivo il rumore delle onde del mare. Continuai a camminare, mentre i miei pensieri volavano lontano. Dopo pochi minuti mi trovai davanti a quel mare che avevo amato fin da bambino, quando venivo qui nella colonia e rimanevo un mese durante le vacanze estive. Ricordo quel bambino che soffriva un po’ la lontananza dalla famiglia e che qualche notte piangeva. Quella sera il mare era mosso, guardando quelle onde non potei non pensare a quei barconi di immigrati che forse in quello stesso momento stavano attraversando quel mare. Immaginai di essere sopra ad un barcone, in balia delle onde. Il mio cuore prese a battere velocemente, la paura mi assalì, pensai a cosa avrebbe potuto spingermi a tentare un’impresa del genere, ma non  trovai nessuna risposta. Pensai a quanta disperazione e quanto orrore doveva esserci dietro alle spalle di chi affrontava un viaggio sapendo di rischiare la vita. Ero immerso in questi pensieri quando mi resi conto della grande fortuna di avere dietro alle spalle l’Italia.

IL PROFUMO DEL MOSTO
È bello camminare tra il profumo dell’uva matura e i ricordi di giorni lontani, sentire nella mente quelle voci di gente allegra e felice. La sera i tini erano pieni di mosto, le cantine emanavano odore di vino e di vita. Avrei voluto vivere tra quelle vigne in collina, continuare quella vita ricca di tutto e di niente, ma spesso ciò che è tutto ci sembra niente. Nella vita ci sono cose molto più grandi di ciò che riteniamo importante, ma lo capiamo troppo tardi.

SCRIVERE
Ascoltavo le canzoni di Battisti, parlavo di vecchi ricordi e di giorni felici. Vi chiederete chi mi ascoltava. Certo che avete ragione, a chi potevano interessare i miei ricordi e la mia felicità passata. Nessuno mi ascoltava, scrivevo. Ho scritto ancora, ma poi mi sono chiesto: “Perché non parlare? Parlare del presente, basta scrivere le memorie, adesso esco e parlo con la gente, sentiamo cosa dice la gente”. Ho ascoltato prima di parlare. Non avrei mai pensato a tutta questa infelicità. Tutti si lamentano, solo qualche sorriso qua e là, forse sono io che ho visto un’altra realtà. Provo a sorridere, ma c’è troppa rabbia in giro, ho paura che qualcuno spenga il mio sorriso. Credo che tornerò a scrivere anche se nessuno mi leggerà.

DAL CIELO
Questa notte sono volato in cielo e ho guardato la Terra da lontano. Ho visto vecchi e nuovi muri con dentro tante persone. Da quassù i muri sembrano bassi, ma anche le persone sembrano piccole come formiche. Come è strana la terra vista dal cielo, gli uomini per sentirsi liberi alzano dei muri, ma da qui sembrano imprigionati dentro recinti. Formiche sempre in lotta, chi per il potere e chi per mangiare. Vogliono difendere ciò che non possiedono e che dovranno lasciare. È così che rinunciano a vivere. Dal cielo si vedono piccole luci che si muovono nella notte, poi si vedono esplosioni, qualcuno muore, qualcuno si dispera. Altri sembrano indifferenti. Questa notte sono arrivate tante stelline quassù nel cielo. Piccole anime innocenti dimenticate da tutti. Pioveranno lacrime stanotte dal cielo.

LA TRAPPOLA
“Pronto! Con chi parlo?” “Sono dell’Agenzia Immobiliare, le ho trovato casa!” Iniziò con questa bella notizia quel giorno di dicembre di qualche anno fa. I giorni successivi visitai la casa. Era un bel appartamento in collina, aveva tutti i confort che desideravo, lo presi subito dato che l’affitto non era alto. Non avevo molte cose da traslocare, perciò presi un furgone e cominciai a caricare le scatole. Quando arrivai alla mia nuova casa, notai che una finestra era aperta, ma la sorpresa più grande fu vedere una donna che si stava affacciando alla finestra. Dopo aver spento il furgone scesi e rivolgendomi alla donna, dissi: “Cosa ci fa nella mia casa, e come è entrata?” Lei mi fece un gran sorriso e mi rispose: “Ho le chiavi e abito qui!” Mi sembrava impossibile che l’Agenzia mi avesse affittato un appartamento già occupato. Entrai in casa per capire bene la situazione. Lei mi abbracciò e stringendomi mi sussurrò: “È da molto tempo che cercavo di catturarti, finalmente sei qui!”. “Aiutoooo!”

I MARZIANI
Che giornata splendida era stata quella di Marco! L’estate era appena iniziata, il cielo era limpido e il sole arrivava sulla pelle di Giulia, rendendola ancora più sexy ed attraente. Marco e Giulia avevano  passato insieme l’intera giornata, erano stanchi e felici quando si sdraiarono sull’erba guardando le stelle. Intorno a loro era già buio, quando videro una luce nel cielo, pareva che quella luce arrivasse veloce verso di loro. In un primo momento rimasero incantati, ma poi pensarono ad un UFO. Né Marco né Giulia avevano mai creduto agli extraterrestri, ma in quel momento non sapevano spiegarsi cosa fosse quella luce. La luce passò velocemente sopra alle loro teste e poi scomparve nel cielo. Erano veramente degli extraterrestri? Marco e Giulia si addormentarono e il mattino seguente si svegliarono con il canto di un gallo. Quando aprirono gli occhi videro sull’erba tre bottiglie vuote di vino rosso. Marco disse a Giulia: “Ti ricordi l’UFO che abbiamo visto ieri sera? Erano Marziani e si sono bevuti tutto il vino.” Ahahaha

UN ABBRACCIO
Il padre stava osservando Joy che stava mettendo in un cassetto dei bigliettini. “Cosa fai Joy?” chiese il padre. “Sto mettendo i miei sogni nel cassetto, come fanno i grandi.” Rispose Joy  “Che bello, mi sembrano tanti, sono sogni per il futuro o anche per il presente?” chiese ancora il padre. “Molti sono per quando sarò grande, ma ci sono anche per il presente.” Rispose Joy .  “Vuoi darmene uno per il presente, così vedo se posso esaudirlo.” Disse il padre. Joy prese un biglietto e lo diede a suo padre. Il padre lo lesse e rimase molto a riflettere. Nel biglietto c’era scritto: “ Vorrei che mio padre mi abbracciasse come faceva quando ero più piccolo.” Il padre dovette riflettere, perché non si ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva  abbracciato  suo figlio, poi una lacrima scese sul suo viso e strinse forte a sé Joy, in un abbraccio infinito. Era proprio incredibile che un figlio dovesse sognare un abbraccio del padre.

MI CHIAMO ALVY
Quando mi svegliai il sole era già alto nel cielo, il cielo limpido. C’erano tutte le premesse per una giornata meravigliosa, ma a volte le cose cambiano improvvisamente. Quel giorno qualcuno aveva deciso di rovinarmi la giornata. Suonò il telefono e la voce di un uomo mi disse che avrei dovuto recarmi in Questura, da lì poi all’Obitorio per il riconoscimento di un cadavere. Rimasi senza fiato e il mio cuore prese a battere velocemente, pensai chi fosse il morto. Forse un famigliare o un amico, ma perché il riconoscimento? Forse non aveva documenti? Mi feci coraggio e andai in Questura, un Agente mi accompagnò all’Obitorio, scoprirono il cadavere e mi chiesero se lo conoscevo. Lo guardai bene, ma non lo avevo mai visto prima. Subito dopo mi riportarono in Questura. Non capivo perché avessero cercato me per il riconoscimento di quell’uomo, poi il Questore mi spiegò: “Ha detto il suo nome prima di morire”. “Il mio nome?” chiesi. “Sì, Giulio Cesare.” rispose il Questore. “Ma io mi chiamo Alvy!”

 

RENE’ MIRI

IL TEATRO DELLE OPERAZIONI
definisci uno spazio, una parte della memoria, un foglio bianco e una penna. Abbandona i pensieri e lascia defluire le emozioni come l’inchiostro. Prefiguri trama e attori in carne e ossa col semplice obiettivo di vivere un reale già visto. Scateni le passioni più recondite nell’intimo gesto della scrittura. È come donare un pezzo di te, senza paura, sotto forma di un racconto che non è più tuo, già da quando l’inchiostro fissa quello che l’attore ha fatto in vita, e l’attore potresti essere tu! Questa è la magia.

LA SAPIDITA’  DELLE COSE INUTILI
Una tazza di latte, caffè abbondante, marmellata e fetta di pane che soggiace all’artistica spalmata a coltello. Una candelina a ricordare l’intimità di quella fiammella nel cuore. Sorrisi e sorsi di latte tra un telegiornale e un film. Lo zapping è sopportabile solo se chi lo fa non guarda la tv ma cerca i tuoi occhi quasi come a domandare: ”ti piace questo?”. Due a due si scorrono le pagine di un libro che mai scriverai perché’ sarebbe fatto di cose così, piccole, ripetitive, normali… quelle cose “inutili” che senza picchi e clamori, sostengono la vita al suo perenne scopo. Il sapore della vita.

LE PAROLE SOPRA LE NUVOLE…
Una finestra, una ragazza assorta dietro al candore del bucato fresco. Odori di campagna collinare. La sua Sicilia a farle da trampolino per i sogni più audaci come anche normali. E vola, e pensa: “nella testa. Sta tutto nella testa” diceva il matto del paese in una delle sue maschere. Sì, anche perché Alfino Bonocore riusciva a farsi volere bene fischiando come un vigile allorquando c’era traffico o bambini vocianti all’uscita della scuola.
Vigile “onorario” e, si potrebbe dire scherzosamente, maledetto quel giorno quando il comandante dei vigili gli regalò un fischietto. Passeggiava, il caro Alfino, sia nella strada assolata che nelle nubi di sfondo della ragazza di turno. I sogni sono talmente belli che li puoi fare soltanto uno ad uno. Quando quel sogno finisce si sente un fischio:…”Fiiiiiiiii…” … è Alfino che ha fatto dei sogni altrui la propria realtà, senza sapere quanti sforzi le anime belle devono fare per trovare una finestra aperta con l’aria della Sicilia, isola di sognatori…

LA MISERIA DAI MILLE VOLTI
Inutile, si sentiva inutile. Santuccio, figlio di povera gente, aveva però fatto i soldi lavorando duramente in Germania. Tornato a Centuripe, si affacciava sempre su quell’ameno giardino di arance prospicente all’Etna. Garibaldi lo aveva già definito “balcone della Sicilia” a suo tempo. I centuripini invece scappavano via a lavorare e a mandare cartoline nella speranza di averne indietro da Centuripe. È incredibile come un concetto profondo come la sinestesia possa avere effetti così miserevoli. Riassaporare persino gli odori emanati dai mille magoni che prendevano forma sui sospiri ghiacciati della Germania d’inverno. A Santuccio venivano fuori gocce di sudore freddo in piena estate, affacciato e ormai vecchietto. Che miseria avere i soldi in una tasca e nell’altra le vecchie cartoline, prese e fatte a pezzettini, e via,  giù…a librare sullo zeffiro leggero che arriva sulla faccia, lì, a volare ancora, davanti alla piana di Catania, delle miserie che nessuno racconterà mai!

LAMPARE MOVIDA E PORTICCIOLO
Agosto . Per gli abitanti di quel borgo l’effetto della soggettiva visione del tempo è  la vita. Vedi, alle cinque di mattina le  scene dietro una “quinta” fatta di mare, stelle e scogli maestosi. Sedioline riciclate modello “spiaggia”, da bagnante della domenica che lascia la reliquia semi distrutta . Li si ricicla tutto perché non c’è niente. Seduti ad osservare e commentare, i pescatori e il loro mercatino fatto di mani callose e forti, occhi più profondi di un pozzo e sorrisi silenziosi d’intesa coi compari. In spiaggia, i ragazzetti che vanno a casa. Due mondi  si toccano per un attimo. Qualche genitore compra il pesce. Il tempo di fare prezzo e un cazziatone al figlio, uno compra da cucinare e l’altro è praticamente cotto… I pescatori ridono. Loro, della vita notturna sanno solo le luci dei falò che si vedono dalle barche .Ad agosto passano troppi pesci e ci sono i clienti. Non possono cedere alle lascive conquiste del progresso e alle frivolezze moderne. Lì si diventa grandi a 10 anni … quando va bene…

 

SELEZIONE SEZIONE QUALITÀ

 In questa sezione una selezione dei contributi postati dai partecipanti

IL VIAGGIO
Anna salì sul treno con lo zaino pieno di aspettative. Le sembrava di aver raccolto tutte le gocce di coraggio in un vaso trasparente, nascosto all’altezza del cuore. Stringendo il biglietto, cercò il proprio scompartimento e il numero del sedile. Era vicino al finestrino. Con lei un altro viaggiatore, immerso nella lettura e in un profumo sottile di dopobarba. Era qualcosa di delicato e deciso al contempo.
Osservò l’uomo che contraccambiò il suo rapido sguardo con curiosità gentile. Un sorriso gli ravvivò il viso mentre spostava di lato le gambe per permetterle di prendere posto.
Anna aspettò che il treno ripartisse per abbandonare lo sguardo fuori.
L’adrenalina le scorreva dentro, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene. Solo un leggero tremore le percorreva il corpo. Stava per lasciare tutto quanto indietro. Tutto ciò che non era mai riuscita a chiamare vita.
Rilessi il pezzo che avevo scritto di getto. Dovevo ancora lavorarci su, ma mi serviva tempo. Salvai il documento e spensi il computer, lasciando che la mia Anna iniziasse il viaggio che io non avevo mai avuto il coraggio di fare.

NELLA TENDA DA CAMPEGGIO
Il piccolo Lorenzo aveva preso possesso dell’angolo più inaccessibile della casa, la soffitta, passando ore intere nascosto nella sua tenda da campeggio. Si sentiva al sicuro là dentro, libero di essere se stesso. Gli bastavano una penna e un quaderno a righe perché con quella tenda volasse altrove, in mondi immaginari che solo lui poteva varcare creando storie. Erano luoghi fantastici in cui nessuno lo avrebbe preso in giro per quegli occhiali dalle lenti troppo spesse. Era in quei mondi che poteva incontrare ancora il suo adorato nonno.
«Tesoro, perché non esci a giocare con gli altri?» gli chiese sua madre facendo capolino dalla porta della soffitta.
«Dopo vado, mamma» le rispose lui in modo sbrigativo.
Scrivere gli permetteva di colmare quella voragine improvvisa e di sentire vicino chi era diventato invisibile.
«Ecco. Questi ti permetteranno di guardare nel cuore di chi incontrerai» disse lo stregone dalla folta barba bianca porgendo al ragazzino una scatola damascata.
Il ragazzino l’aprì: all’interno c’era un paio di occhiali dorati.
Sonia Barsanti

OGGI È UN GIORNO
Oggi è un giorno che tutto fotograferei
le tue calze
quelle di cotone a righe colorate
e quelle nere
i tuoi orecchini sul tavolo dove mangiamo
la pensilina deserta alla fermata del bus
l’arbusto di fiori bianchi
circondato da piante scure
il torrente in mezzo al parco
l’albero che si china sullo stagno
con le anatre sonnacchiose
il parco giochi dei bambini senza bambini
l’asfalto bagnato che piano si asciuga
che non si capisce se è l’autunno che muore
o la primavera che deve ancora arrivare
oggi è un giorno che tutto lo fotograferei.

QUESTIONE DI POCHI MINUTI
Appena sei entrata nella stanza
hai ucciso il volume della radio
e ho capito che ascoltarti
era tutta questione di musica
Hai posato subito gli occhiali
sul comodino accanto al letto
e ho capito che guardarti
era solo questione d’intesa
Ti sei tolta gli orecchini
sfiorando i tuoi capelli
e ho capito che accarezzarti
era questione di pochi minuti
Quando hai smesso di parlare
guardandomi la bocca
ho capito che baciarti
era questione di dolci silenzi
Ti sei sfilata anche gli anelli
uno ad uno dalle dita
e ho capito che toccarti
era questione di centimetri
Ti sono caduti via i vestiti
tutti sparsi sul pavimento
allora ho capito che averti
era questione di abbracciarti
Francesco Carrubba

 

I PENSIERINI
I primi anni delle elementari, quando non eravate ancora in grado di scrivere un tema completo, la maestra vi dava «i pensierini», che tu adoravi, perché già ti permettevano di sbizzarrirti con la fantasia e con l’italiano.
Fra tutti, te ne è rimasto impresso uno in particolare.
La maestra ve ne aveva assegnati una serie, in cui si dovevano usare gli avverbi «qui» e «qua» e «lì» e «là».
Tu scrivesti: «Là, dietro l’angolo, c’è Maurizio Costanzo», perché «Cosa c’è dietro l’angolo?» era la frase di rito con cui Costanzo chiudeva il suo primo talk show alla televisione, Bontà loro.
La maestra ti vergò sul quaderno «Benissimo!», con tanto di punto esclamativo, anche se nessuno dei tuoi compagni aveva capito il senso del tuo pensierino.

LO SPECCHIO VERDE
Hai imparato a essere scaramantico fin da bambino, dopo un episodio che ha cambiato la vita tua e dei tuoi familiari.
Ricordi che un giorno la mamma, nel bagno, lasciò cadere  a terra il suo specchio rettangolare che usava per il trucco: era piccolo, con una cornice sottile e il retro di plastica verde.
Nel momento in cui si frantumò in mille pezzi, la mamma si mise le mani nei capelli e gridò: «No! No! Adesso ci saranno sette anni di guai!».
Vorresti tanto aver conosciuto già allora l’antidoto del caso (raccogliere i cocci e gettarli entro un’ora dentro uno specchio di acqua corrente), ma eri troppo piccolo per sapere, e certo nessuno poteva immaginare che quell’esclamazione sarebbe diventata realtà.
Sicuramente sarà stato un caso, ma nel giro di sette anni la tua famiglia si dimezzò.
Nella casa rosa con la palma davanti, rimaneste soltanto tu, tua madre e tuo fratello.
Da allora e per sempre, nessuno ti può togliere dalla testa che gli specchi è meglio non romperli mai.
Aldo Dalla Vecchia

IL MISTERO DELLA VITA
Riflesso nello specchio dei miei ricordi c’è lui, mio padre. «La vita è un momento»  ̶  mi diceva  ̶  «un attimo che conterrà tutte le tue lacrime e tutti i tuoi sorrisi. Le persone che incontrerai e le vicissitudini che vivrai faranno la tua storia, sta a te decidere che ruolo avere. Se sarai spettatore vedrai scorrere il tuo momento sull’acqua di un fiume che porterà via il tuo tempo e con esso sogni, speranze, dolori e gioie, che svaniranno lasciandoti la solitudine di una vita sprecata. Se invece coglierai il tuo scopo, la lotta per raggiungerlo farà di te un protagonista e quell’attimo sarà per sempre.» Lo chiamava il Mistero della vita.
È vissuto difendendo i suoi ideali e le sue idee, senza mai piegarsi ai compromessi né rassegnarsi alle sconfitte. La sua forza gli ha permesso di sopravvivere all’effimero restando viva nella mia memoria. Ora tocca a me farlo volare verso l’eternità, lo farò sulle parole della storia che racconterò, la sua. Sarà la fine del suo scopo e l’inizio del mio.

IL RACCONTO DI UNA CANZONE
Francesca è in auto, “un’altra giornata identica alle altre” – pensa. Ha un’età in cui le è vietato sognare e vive in un’epoca che le ha distrutto tutti i sogni. È triste e il tempo uggioso le è solidale. Al termine di un notiziario che ha stimolato quella condizione di tedioso stallo che l’ accompagna, trasmettono una canzone. Viene letteralmente travolta da quelle note conosciute, un ritmo che la coinvolge al punto da ballare con il volante. Al di là dell’aspetto ridicolo, se non pericoloso, della scena, lei si sente felice. Si rivede in un tempo spensierato dove spesso le giornate erano uguali, ma non se ne accorgeva. Lo strano è che non sta solo ricordando di cantare, sta cantando: “respiriamo l’aria… aspettando primavera… na… na” Quella canzone racconta quel che lei è stata, ma anche un’altra storia quella che potrà ancora vivere. Al diavolo la depressione! Vuole di nuovo sperare e lottare e credere. Mentre pensa, i suoi occhi vengono abbagliati da un raggio di sole. È incredibile, non ce n’era uno spiraglio.
Raffaella D’Ercole

PSICANALISI
La penombra allettante, il lettino morbido, stavo bene dall’analista.
C’ero arrivato a pezzi, dopo il trauma. Mia moglie, dopo dieci anni aveva detto basta e … basta.
Gli amici, sfiniti, mi avevano spinto a sfogarmi con le “orecchie” accoglienti del Dr. Piròli, per la modica cifra di 100 euro a seduta, che aggiunti agli alimenti, mi stavano riducendo sul lastrico. Ora ero guarito e glielo avrei detto.
«Aveva ragione dottore. Chiudere col passato, ricominciare a vivere. Ho trovato la donna giusta!»
«Bene, ma non sia precipitoso. Vuole parlarne?»
«Certo! Avvocatessa. È sposata ma dice che suo marito- pensi – psicanalista, è un cretino e lo lascerà.»
«Ah, la descriva».
Il tono era cambiato, impercettibilmente.
«Bionda, brillante… Ha due figli e non dimostra affatto i suoi 45 anni, la mia Laura».
Il pugno mi arrivò con precisone millimetrica fra le sopracciglia, potente come il passaggio di un Tir. Aveva gli occhi iniettati e ad ogni colpo ripeteva “io sarei il cretino?”
Accorse la segretaria a salvarmi da morte certa.
L’abbiamo perdonato, io e Laura. Certo la parcella è stata salata…

DESTINI COMUNI
Marta fuma, si accarezza la guancia, poi, la pietra. Stessa scabrosità. Sul castello, il tempo, su lei, un uomo. Il suo, che, folle e rabbioso ha infierito, sfigurandole il sorriso. Spesso torna lì, dove sembra che lo spirito della Pia, le soffi nelle orecchie “coraggio”. L’avevano scoperta insieme quella nicchia, sulla strada per Gavorrano e lei, aveva insistito per arrivare fin lassù. “Sassi…” aveva sbuffato Paolo, “pieni di passione…” aveva mormorato lei. La storia della donna, assassinata nella Maremma ostile, per gelosia o per politica, da colui che “…disposata l’avea con la sua gemma…” la intrigava. Mai avrebbe pensato di tornarci sola e devastata. Lo sguardo vaga sulle crete mentre rivive quel dolore. L’ennesima scenata e poi il fuoco del vetriolo che le divora il volto. Si tocca ancora, gesto che ripete, automaticamente, venti volte al giorno. Domani subirà il sesto intervento ma niente sarà più uguale. Paolo ha patteggiato due mesi, poi via, a Parigi. Con un’altra. Come il tuo Nello. Vado, amica, ma tornerò. Le ombre sono lunghissime sul Salto della Contessa mentre sale in auto.
Tiziana De Felice

LA FARFALLA INTIRIZZITA
Una sera di novembre, avevo l’umore a pezzi dopo una giornata di estenuante lavoro. Mi sentivo inutile, insoddisfatto di questa vita monotona e grigia. Le stesse facce tutti i giorni, i medesimi problemi e quella sensazione di freddo che ti penetra nelle ossa: la mia anima si stava consumando per inedia di emozioni.
Venne ad aprirmi mia moglie, anche il suo sorriso nell’accogliermi si era spento con il tempo. Dopo aver appeso svogliatamente il giubbotto, mi chinai per slacciare le scarpe e mettermi in libertà. Feci l’atto di sedermi. “Fermo!” urlò mia moglie. Rimasi di pietra in attesa di qualcosa di sconvolgente. Lei si chinò e dal retro dei pantaloni prese delicatamente una farfalla bianca, infreddolita che per salvarsi dall’umidità e dalla pioggia aveva pensato bene di farsi dare un passaggio. La adagiò su di un libro posato sul tavolo, ma lei volò sul ripiano più alto della libreria e rimase là a riscaldarsi. Io e mia moglie ci guardammo negli occhi che brillarono di gioia e di meraviglia pensando al suo fiducioso attaccamento alla vita.

UN PORTAMONETE PARTICOLARE
Mio nonno non era un uomo loquace, trascorreva ore in silenzio, fissando un punto lontano con la pipa in bocca. Non era neppure tanto generoso con i nipoti. Ricordo, però, che un giorno arrivai a casa sua con il “ricordino” della Prima Comunione e il suo viso si illuminò. Pensai che questo per lui fosse abbastanza, per cui mi voltai e mi diressi verso la porta in cerca di guadagni più cospicui. Mi richiamò subito indietro perché voleva farmi un regalo. Io rimasi con il fiato sospeso e in religiosa attesa. Dalla tasca dei logori pantaloni di fustagno tirò fuori un fazzoletto da naso tutto sgualcito e appallottolato. Sobbalzai. Egli con una flemma degna di un lord inglese sciolse i due nodi che lo chiudevano, stirò i lembi scoprendo un mucchietto di monetine lucenti. Vi rovistò in mezzo, soppesandone alcune e infine ne trasse una da cinquanta lire che mi porse con un sorriso indescrivibile. Il valore era quello di un pacco di patatine ma quel gesto così sorprendente e inatteso mi riscalda ancora il cuore.
Maria Dettori

LA NATURA E’ PIENA DI MISTERI
La natura è piena di misteri. Tempo fa, quando mia nonna aveva già passato i 90 anni, accadde un fatto molto particolare. Aveva un piccolissimo giardino, due metri proprio, e dentro c’era un alberello di albicocche, praticamente morto. Mia nonna rimandava di anno in anno il momento di tagliarlo. “Tanto” diceva “non mi dà fastidio”. Un’estate, su un ramo che niente di diverso aveva dagli altri, si formò una gemma che crebbe, diventò foglia, fiore e poi frutto… un solo frutto. Bellissimo e saporito. Mia nonna lo gustò come se l’avesse sempre aspettato. L’autunno dopo l’alberello si spezzò col vento.

I LIMONI
È l’oro dei nostri luoghi. E’ direttamente un regalo del sole alla terra, per illuminarla anche quando il cielo è cupo. Infatti in un giorno particolarmente grigio, le nuvole erano strette tra loro come un gregge di pecore infreddolite. Il sole, stanco di aspettare i loro comodi, si aprì uno spiraglio e scese zitto zitto sulla terra. La pioggia lo notò e sbuffò, perché gli faceva evaporare le goccioline, così smise per un po’. Il sole si ritrovò in un giardino molto bello e… molto verde… forse troppo verde. A parte le margheritine non c’era nessun’altro colore. Scivolò fluttuando con i suoi raggi tra le piante, finché non vide una bella goccia d’acqua poggiata su una foglia. Brillava tanto. E lui ci si specchiò con il suo bel faccione giallo, sorridendo felice, perché aveva avuto un’idea. Quella goccia di lì a poco si tramutò in un frutto pieno di luce. Era nato il limone.
Patrizia Di Martino

 UN BUON LIBRO
Le parole da sole non fanno male. Non hanno lati taglienti né angoli acuminati.
Sono innocue, sornione, sembrano quasi bastare a se stesse.
Le trovi in un vocabolario, in un dizionario o in un’elegante enciclopedia, ordinate in modo maniacale, lemma per lemma.
Messe l’una accanto all’altra, in una frase, possono diventare vere e proprie armi e uccidere.
Altre volte sono ingannevoli come il canto delle sirene.
Ma quando sono scritte bene, sanno rapire il lettore e guidarlo in un viaggio misterioso e sublime, da mille e una notte. E dare la sensazione di poter vivere la storia appena letta.

IL VALORE DI SE STESSI
Il suo corpo sembrava scolpito da una mano sapiente, al solo scopo di suscitare piacere.
Frutto proibito, mito e termine di paragone della femminilità e della sensualità.
Desiderio nascosto, ma senza averne uno proprio.
Col tempo la sua vista accrebbe il sottile tremore che avvolge la passione.
Pensò che la voluttà potesse avere un prezzo. Così perse la sua sacralità e decise di rinunciare al rispetto e all’onore della propria persona.
Le movenze agili e sinuose, le rotondità ben distribuite erano diventate il luogo dove tutti s’incontravano, senza incontrare mai lei, dove tutti vivevano, impedendo a lei di vivere.
Salvatore Esposito

MASCHERE
Non c’è motivo per spogliarsi in pubblico.
La quotidianità è un teatro, la vita finzione, le persone personaggi, alcuni protagonisti e altri semplici comparse. Ognuno programmato per interpretare un ruolo, per recitare un copione che, il più delle volte, neanche sente suo.
Indossiamo tante maschere quante sono le nostre conoscenze.
Le indossiamo bianche, pulite, in attesa che gli altri le colorino, le imbrattino e le accartoccino.
Indossiamo maschere perché ignoriamo chi siamo, se non stupidi cocktail con l’ombrellino.
Indossiamo maschere per non spaventare la gente, per nascondere il nostro abisso.
Siamo uomini di cartapesta.
Travestiti.
Attori dell’esistenza.
Solo che alcuni di noi usano la pagina bianca per denudarsi, le parole come scrub per depurarsi dalla quotidianità. La carta è una chiesa, la scrittura una Dea gelosa che non accetta né maschere né tradimenti.
È bene presentarsi nudi al suo cospetto.
Non la si può ingannare.
Riponiamo le maschere e doniamo alla Dea ciò che la gente non merita.
Ciò che la gente non vedrà mai.

ESSI VIVONO
Simone sobbalzò nel letto, destato da un gorgoglio metallico. Ispezionò la camera prigioniera del buio. Era vuota, ovviamente, eppure, per certi versi, se ne sorprese. Ultimamente i suoi incubi apparivano così… reali.
Il suo inconscio tentava di comunicargli qualcosa?
All work and no play makes Simone a dull boy.
Il cielo, fuori dalla finestra, era viola e profondo come la gola di un serpente.
Simone richiuse gli occhi.
«Siamo stanchi di aspettare» bisbigliò qualcuno nel buio.
Simone s’irrigidì.
Stavolta la voce era reale, l’aveva sentita, non era il rimasuglio di un incubo.
Seguirono passi frenetici, risatine puerili, rumori disumani.
Seppur terrorizzato, Simone allungò una mano verso l’interruttore. La lampadina esplose in una luce scarlatta che evidenziò le sagome attorno al letto: bambini deformi, bifolchi mascherati, esseri vizzi e sbavanti, pagliacci in decomposizione, creature spigolose e senza lineamenti…
Simone svuotò i polmoni, ma presto si accorse di dover restare.
Non poteva fuggire da se stesso.
Quelli non erano mostri.
Quelle creature erano lui.
Le parole non scritte, i personaggi abortiti, le storie mai raccontate o mai terminate.
Samuele Fabbrizzi

INCOMPATIBILITA’
Un certo genere di maschio è forse troppo svogliato per completare gli studi che la legge ha prescritto anche per lui, ma resta intensamente convinto d’essere dotato di un’intensa preparazione e, nonostante la licenza media che ha preso a fatica e anche grazie a qualche calcio dal padre; un giorno, che è in compagnia della donna che spera di conquistare, afferra il cellulare e poi dice alla donna su cui vorrebbe far colpo: “ora metto il silenziatore!” E quella, che è dottoressa di nome e anche di fatto, gli risponde: “a chi devi sparare?”

MAMMA
Un grido nella notte
e mai,
mai una risposta.
Figura consigliera ed affettuosa
tu per me non sei più niente
e penso a te
mentre si avvicina la tua festa
calde lagrime mi bagnano il volto
e nessuno è qui ad asciugarle
afferro il fazzoletto
e me lo passo con rabbia sugli occhi
quegli stessi occhi
che, un attimo dopo,
riprendono a lagrimare.
Francesca Facoetti

SOCIAL
Mauro, A cosa stai pensando?
Facebook la fa ogni giorno questa domanda. E io condivido foto di gatti, massime di Voltaire, frasi melense e banali.
A cosa stai pensando?
Stavolta te lo scrivo, caro Facebook, a cosa sto pensando. Stavolta riverserò la mia anima nella bacheca, la mia vita in un post.
A cosa stai pensando?
“Sto pensando che è ingiusto. È ingiusto che io sia qui, anziano e solo. È ingiusto che Dio si sia portato via mia moglie ed è ingiusto che il mio unico figlio viva in Inghilterra e si dimentichi di saper usare Skype, Messenger, Whatsapp o, anche, più semplicemente, il telefono.
Sto pensando a come farmi bastare la pensione, agli esami del sangue sempre sballati, alla pressione alta. Sto pensando agli amici. Quelli che incontri spesso da giovane, vedi raramente nella mezza età, scompaiono da anziani.
Sto pensando che questa vita fatta di TV, bastoni per camminare, fatica a digerire, non mi piace. Non mi piace più.”
La freccina bianca si piazza sul bottone “Pubblica”.
Mauro Tonetti ha condiviso una foto di “G come Gatto”.

IUDEX DAMNATUR
“Iudex damnatur, ubi nocens absolvitur” (Publio Siro).
La lama s’infilò tra la quinta e la sesta costola. L’uomo in grigio la osservò con stupore come un bimbo osserva la sorpresa dell’uovo di Pasqua. L’uomo in verde scoprì i denti in un sorriso consapevole e composto. L’uomo in grigio era intelligente. Aveva capito che stava per morire. In fondo il dolore era sopportabile, ma si sentiva stanco. Tanto da desiderare stendersi sull’asfalto. L’uomo in verde godeva nel vedere la chiazza rossa allargarsi. Fu tentato di fare un conto alla rovescia, meno dieci, nove, otto… ma gli parve troppo difficile indovinare il momento esatto della morte. Si limitò a osservare gli occhi dell’uomo in grigio spalancarsi e chiudersi.
Il tonfo fu poco rumoroso. Bocconi, il giudice in grigio attendeva che il cuore smettesse di battere. Il padre in verde, in piedi, armeggiò nella tasca. Prese la foto della ragazza con la frase in latino, scritta in penna blu e la gettò a fianco all’uomo in grigio.
“Quando il colpevole è assolto, sia condannato il giudice”.
Lodovico Ferrari

LUNGO LE CADUTE DEI NOSTRI INCONTRI
Lungo le cadute dei nostri incontri
permeati di baci precipitiamo
– ampie scansioni di falli inevitabili
le cadenze del nostro amore
E nei residui cristalli dei sospiri
restiamo increduli a scrutare
l’abisso sospeso degli sguardi
gli affilati profili dei perché
Ma decantato il colore
e l’inquietudine interminata degli spazi
solamente nel “dopo”
riconosciamo noi stessi
C’era un che di danzante e seducente nella musica di quelle parole e l’uomo si lasciò condurre docilmente nel sogno della donna, quando sentì la mano di lei cogliere, leggera, la sua.
Era trascorso un tempo indeterminato e l’uomo si trovava ora con lei, sulla dorsale gentile di una dolce collina: il verde dei prati prevaleva su quello più cupo di macchie d’alberi, qua e là, ornanti l’aspetto armonioso di quel paesaggio morbido e vasto che si scomponeva e ricomponeva, quando un raggio di sole filtrava tra nubi leggere, confondendo l’azzurro del cielo a illuminare lo sguardo, fino alla percezione dorata di un’insenatura di mare, lontano.
Mario Marini

LA CURA
Mi prescrisse di scrivere quotidianamente su un quaderno quello che mi era accaduto.
Me lo “prescrisse” come si prescrive un purgante o un sonnifero.
Io lo guardai incerto: la mia licenza media mi rendeva poco consueta la scrittura.
Ma egli insistette, ammonendomi che nella seduta successiva avrebbe verificato se lo avevo fatto.
Controvoglia e senza convinzione acquistai il quaderno per la cura. Per tutto il giorno, trovai ottime ragioni per rinviare, ma quando fu sera e mi trovai a letto, capii che non potevo più sottrarmi.
Mangiucchiando l’estremità della penna, fissavo la pagina bianca, cercando qualcosa che meritasse di essere raccontato.  Mi ero alzato, lavato e vestito quando ancora era buio e, sfidando l’umidità gelata del mattino, ero andato in fabbrica col motorino.
Timbrato il cartellino, mi ero mescolato ai colleghi nel piccolo corteo svogliato che entrava in reparto. “Hai visto la partita?” mi chiedevano  “Cosa c’è da mangiare in mensa?”
Cosa potevo scrivere su quel dannato quaderno che non fosse lo specchio fedele della banalità dei miei giorni? O forse proprio questo mi si chiedeva? Di prenderne dolorosamente atto.

AMNESIA RETROGRADA
Lo avevano trovato mentre vagava senza meta in un quartiere di periferia.
Non seppe rispondere alle domande che gli ponevano.
Perfino alla più semplice: chi fosse.
Amnesia retrograda” fu la diagnosi sulla cartella clinica.
Avevano frugato nelle sue tasche alla ricerca di qualche elemento utile per identificarlo, ma non aveva documenti con sé, né cifre sull’elegante camicia su misura, né sui gemelli d’oro che chiudevano i polsini.
Aveva solo un foglio stropicciato stretto nel pugno e fu un’impresa farselo consegnare.
Diceva: “Amore mio, perdonami. Non tormentarti chiedendoti cosa hai sbagliato, quali parole non hai pronunciato, quali non avresti dovuto pronunciare mai. Qualcosa è finito così come era iniziato e tanto basta. Qualcosa si è ammaccato dentro di noi e non può più tornare come prima. Lasciamo che la vita ci conduca lontani l’uno dall’altra: restano ancora tanti giorni davanti. Per te spero nuovi sogni, nuovi progetti, nuovi amori. Per me, un po’ di ordine nei miei pensieri, una rotta più chiara da percorrere, un figlio da abbracciare.”
Il corpo di una donna strangolata fu recuperato nel canale due giorni dopo.
Marina Martelli

 ORA ILLEGALE
– Si dichiara innocente?
– Ma…
– Le ripeto l’accusa: lei non ha seguito le procedure del cambio dell’ora legale; alle 2 precise avrebbe dovuto spostare gli orologi di un’ora avanti.
– Ma l’ho fatto il mattino dopo, che cambia, mi scusi?
– Tutto, ora lei si trova “sfasato” rispetto al mondo legale.
– Non capisco.
– Appunto, lo capirà solo tra un’ora.
– Ma…
– Avvocato della difesa, vuole procedere con la sua arringa?
– Niente da aggiungere, il mio cliente è indifendibile, non ci sono precedenti, non ho parole, e poi…
– E poi?
– E poi non mi capisce, è uno sfasato, lei lo sa meglio di me.
– Va bene, grazie. Allora procedo con la lettura della sentenza: “Il signor Sfasato viene condannato a 6 mesi di giornate da 25 ore, ove l’ora eccedente si considera ora lavorativa ai servizi sociali e inoltre… ehi dove è finito l’accusato? Guardie, cercatelo!
– Signor giudice è svanito, deve aver sfruttato il suo sfasamento per fuggire in un cavillo temporale, probabilmente si trova ancora qui, ma un’ora avanti…

MASCHERE
Dico “buongiorno” con il sorriso sulle labbra, anche se sono arrabbiato.
“Certo capo, la presentazione sul forecast di bilancio è pronta, gliela giro immediatamente” (ma penso: “ti odio raccomandato del cavolo!”). Prendo il caffè con colleghi che disprezzo, ma potrebbero servirmi prima o poi. Nelle riunioni urlo e fingo di essere arrabbiato, anche se non mi importa nulla dell’argomento. Alla fine esco e getto la maschera del perfetto impiegato nel cassonetto per l’umido, viscido sarebbe meglio.
Raggiungo gli amici al bar per l’apericena. “Come stai bello?”, “Dammi il cinque!” (Già odio solo la parola apericena, per poi non parlare di Gianni che è sempre in mezzo alle scatole con quel ciuffo da cretino). In auto mi tolgo la maschera dell’amicizia, puzza.
Sono seduto a cena con la mia famiglia: il mio ruolo di marito mi impone di fare certi discorsi, ascoltare pazientemente, scherzare sul più e sul meno.
Esausto vado in bagno, chiudo a chiave. Finalmente solo, mi strappo l’ultima maschera della giornata e mi guardo allo specchio: vedo una testa senza viso, solo due fori neri al posto degli occhi.
Adriano Muzzi

CHISSÀ
Chissà cosa direbbe la signora del caffè, se potesse intravedere i miei abiti sotto l’impermeabile.
La incontro tutte le mattine, mi sorride benevola e mi racconta… mi parla di lei, del figlio lontano, del marito sempre al lavoro, di quanto le mancano i nipotini…
È il mio attimo di quotidianità, la mia boccata di ossigeno. Mi lava dagli odori, i sapori, le parole della notte. Chissà cosa direbbe se sapesse che, con l’arrivo del buio, regalo felicità a uomini soli, ragazzini viziati, mariti incapaci di confessare le proprie perversioni, vecchi insoddisfatti.
La guardo e le sorrido, grata per quell’istante di normalità che mi regala ogni giorno.
Chissà cosa direbbe la signora del caffè,  e sapesse che il suo Luigi è uno dei miei clienti più affezionati.

DEONTOLOGIA PROFESSIONALE
– Prego Mancini, vediamo il tuo compito –
Il ragazzo avanza con incidere deciso verso la cattedra, mentre gioca con il pezzo di ferro che ha conficcato nella lingua.
– Un teschio con la bocca spalancata che vomita auto, persone, grattacieli e case???-
Il mio tono di voce si alza:
Ragazzo mi prendi in giro? –
– No! Ho svolto la consegna! –
– E dove sarebbero i colori, la sfumatura e le altre tecniche su cui abbiamo lavorato? –
– L’ elaborato era libero, così ho pensato di giocare sul bianco e nero per creare ombre e dare prospettiva e profondità –
Riduco gli occhi a due fessure:
– Non è una metodica che abbiamo approfondito durante l’anno… –
– No –
– Io volevo contrasti di colore, giochi di luce, linee morbide, allegria, vivacità…  insomma la gioia dei vostri sedici anni!!! –
Scuoto la testa e afferro il registro.
– Al posto! –
Alunno: Mancini Francesco
Elaborato: Nelle profondità della mia anima
Tecnica: Libera
Valutazione: 4
Vittoria Nava

ASPETTO LA FINE DI UN CORSO…
Mamme, un papà… parlano, parlano: alla scuola dei figli c’è un bambino che s’abbassa i pantaloni… andrebbe cacciato. Uno colpisce i compagni con le penne, uno si lancia a tutta forza contro la porta, un’altra “è una vecchia nel corpo di una bambina”. Un bambino gioca con le bambole, vuole vestirsi da femminuccia: diventerà omosessuale? Transessuale? Ho il telefonino con la radio (altro che internet), metto le cuffie. Va bene qualunque cosa. Invece: “All’ombra dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore”. Alzo il volume, le persone diventano pesci innocui… graziosi. “Aveva un solco lungo il viso…”. Muovo il piede (il mio massimo di ballo), la testa. Non sento, non vedo più nessuno. “Ho sete e sono un assassino”. Canto: lalalala lalalala…
La canzone finisce, finisce la musica (avessi avuto internet, altro che radio). Non sento parlare: mi guardano, poi scambiano dei sorrisini. Sono imbarazzato, per fortuna arrivano i bambini: sono cinque ma sembrano cinquanta. Corrono, saltano, urlano, picchiano, ridono, ballano, sputacchiano. Il papà intima ai figli, piglio deciso: “Finitela… quando crescerete?!”. Li guardo. Gli auguro di diventare adulti stronzi il più tardi possibile.

LA PRIMA VOLTA CHE ANDAI A SCAMPIA
Ero un po’ spaventato. In due sullo scooter, ci dissero: togliete il casco, portate la telecamera a vista. Accettammo il secondo consiglio. Oltre alla bruttezza delle vele, colpivano le strade larghe, desolate, tanto contrastanti col resto della città. Il mio collega disse: “Se vivi qui, che fai?”. Avvertii un senso di nausea, la voglia di andarmene prima possibile e non tornarci mai più. Nelle strade solo noi. Io con la telecamera, solitamente nel borsone, ben visibile. Eravamo nel posto capovolto di una città capovolta… Appena entrati nella palestra della famiglia Maddaloni, percepii subito un posto speciale. Pieno di ragazzi che si allenavano. Un bambino, dieci anni forse, venne a chiedere “quanto costa”. E il signor Maddaloni: “Vieni coi tuoi per una lezione di prova. Se ti piace, non preoccuparti dei soldi”. Nell’intervista parlò della medaglia d’oro appena conquistata dal figlio alle Olimpiadi, ma, disse, il suo principale obiettivo era togliere i ragazzi dalla strada, sottrarli alla camorra. Molti lì, si capiva, non pagavano niente. Uscendo, ricordai quella canzone di De Andrè sui diamanti e sul letame. Sperai di ritornare presto.
Gabriele Paduano

LA PRINCIPESSA DELLE FAVOLE
Facce d’ogni età, multietniche, passeggiano sul lungolago.
Il sole fa brillare lo specchio magico di rilevante beltà.
Dalla panchina un vagabondo osserva l’andirivieni.
Con gli anni cuciti addosso parla da solo, rimescola memorie.
Infine, s’appisola e russa.
Passa un nugolo di ragazzini. Lui si sveglia di soprassalto.
“Che c’è da guardare?” domanda. Loro scappano via.
Nel mentre, un’incantevole donna si accomoda sulla panchina.
Il suo viso non palesa l’ombra d’un sorriso.
L’uomo non sa che pesci pigliare. Impacciato, guarda il lago.
Conosce le favole a memoria, non ha dubbi, costei è una Principessa.
“Chi sei? Non appartieni a una favola. Mai fidarsi degli sconosciuti. Occhio, dicono che son matto”
“A vivere la solitudine si diventa matti”
“Tu, che ne sai?”
“Sono ammattita”
“Per colpa di chi?”
“Acqua passata, è andata com’è andata”
Una lacrima le scappa dagli occhi e le riga il viso. L’uomo gliel’asciuga con il palmo sporco, poi le stringe le mani. Quando qualcuno ti stringe la mano il mondo fa meno paura.
“Principessa, ti auguro di vivere una favola”
Anelando d’abbracciare la felicità, lei gli sorride.

UNO, NESSUNO, CENTOMILA
Vivo la strada, privo d’identità.
Uno, nessuno, centomila. Depersonalizzato.
Sbaglia chi ritiene che io sia un folle
Mi sento emarginato.
Le mie orecchie hanno udito milioni di parole.
I miei occhi hanno veduto l’inverosimile.
Sono un osservatore. Fotografo attimi di vita, quella degli altri.
Beato chi è felice e appare perfetto.
Incompreso e disperato ho abbracciato la solitudine. Sogno la felicità.
Come rientro al mondo senza coordinate d’affetto?
Marina Paolucci

IL GRANELLO DI SEMPRE
È piccolo, ma lo vedi lo stesso nella massa tutta uguale. Quand’è allegro e splende, è come un chicco di grano che, pur minuto e fragile, ha dentro tutta la forza del sole e fa cose buone come il pane o scoppiettanti come i popcorn.
Quand’è triste o ha il broncio, se ne va in giro mogio come un chicco di caffè senza lavoro. “L’aroma è tutto”, sembra pensare fra sé e sé, e ricorda i bei tempi quando la vita era semplice e, una volta macinato e tostato, uno diventava gorgoglio e sbuffo e sapore che s’effondevano per tutta la casa.
È il granello, il granello di sempre. Quello che, con la sua forza piccola, risale controcorrente la massa del mai.

GIACOMO LEOPARDI
Giacomo, come farebbero gli altri a sopravvivere solo standosene accanto, in queste gelide giornate d’inverno, raccontandosi le piccole cose senza importanza che renderanno indimenticabili quei giorni, rannicchiandosi la notte l’uno nell’incavo dell’altro per uscirne la mattina gonfi come palloncini che aliteranno sulla faccia del mondo il respiro notturno dell’altro? Come farebbero, senza la poesia di quelli che sono rimasti soli?
Marina Presciutti

COME TU MI VUOI
Sorseggiò un sorso di amaro. Chiaramente soddisfatto delle portate e dell’atmosfera familiare. Tamponò le labbra nel tovagliolo e poi si alzò a salutare i commensali. Per ultimo baciò Stefy. La moglie piegò il collo a porgergli la guancia ma lui pretese le labbra.
“Tesoro farò tardi. Non aspettarmi alzata.”
Dalla finestra lo guardò allontanarsi.
Più tardi Stefy passò a prendere Tiziana. Un tocco al citofono e lei scese lesta.
“Il tuo cambio?”
“E’ nel baule” Rispose Stefy.
“No. Non prendere la tangenziale. Questa volta proviamo una zona nuova. Vai dritta e al semaforo gira a destra.”
Stefy era perplessa, esternò la probabilità di incontrare il marito. Ma Tiziana la tranquillizzò, dicendole che lui frequentava le zone centrali.
Si cambiarono in una roulotte ai margini dello spiazzo adibito al mercato diurno.
Stava scherzando con Tiziana quando si girò, abbassandosi al finestrino di un cliente.
Fu lei a rompere il silenzio.
“Cosa credi che non mi sia accorta che cercavi altro? Ho pensato di andare a lezione, così avrei saputo essere come tu mi vuoi.”
“Ma…”
“Allora?”
“Sali.”

L’ESCLUSA
La chitarra pizzicata sale nel vicolo infilandosi come lo scirocco a raggiungere timpani accondiscendenti. Per Veronica proprio non è giorno di musica. Chiude la finestra e si rimette a fissare lo schermo. In primo piano le sue cosce aperte, dopo l’abbozzo della pancia i seni divisi mostrano il suo viso. I commenti poi da inquisizione!
Eppure si vede benissimo che è un fotomontaggio. Perché non lo rilevano?
Lei sotto ogni commento scrive chiaramente che non ha mai posato nuda e che il suo ragazzo ha pubblicato quella foto contraffatta solo per vendicarsi di essere stato scaricato. Ma nessuno pare leggerli. Le sue amiche poi, troie certificate, si sono schierate tutte dalla sua parte.
Veronica però ne è certa, la verità salterà fuori, pure in una Sicilia blindata del terzo millennio e allora sì e solo allora, si divertirà a posare a cosce all’aria.
Franca Riso

SIRENETTA DI ANDERSEN
In posa nel mare dei sogni attraversi imperterrita tempeste maree inganni.
E resti intatta nel mio immaginario.
Gocce di pioggia accarezzano i tuoi delicati lineamenti.
Venti dell’est abbracciano e vestono la tua esile figura.
Sai sorridere alle bufere e guidare i marinai.
Attendere il sole e leggere il volo degli uccelli.
E i pensieri degli uomini.
Le tue lunghe braccia toccano il cielo.
I tuoi occhi limpidi inseguono gli angeli.
Immobile viaggi lontano e cambi espressione.
Volgi lo sguardo e ridi alle nuvole.
Sei il mio incanto e il mio incantesimo.
La mia pinna e il mio timone nel mondo.
La mia preghiera e le mie scarpette rosse.
Sei la mia fiaba di Andersen.
ELETTA (alla scuola degli Angeli)

Eletta sono da te
Vivo di un amore straordinario
Incomprensibile umanamente
Reale sentimentalmente
Vengo a prenderti in cielo
Alla scuola degli Angeli
Esci all’una e un quarto
Mi voli incontro
Con la cartella piena d’amore
Invisibile umanamente
E pur mi raggiungi nel cuore
Mentre ti ho tra le braccia
E sento i tuoi piedini e le tue piccole mani
Vedo il tuo viso e i tuoi occhi sorridermi
Impossibile umanamente
Canti e io ti ascolto baciarmi l’anima
Danzi e io respiro di viole e fragole
E sento la tua guancia incollata alla mia
I tuoi pensieri trasparenti dentro la mente
Sento comprese le mie parole e percepite le tue
Incredibile umanamente
Reale divinamente
Racchiudo l’emozione nello scrigno dell’immaginario
E disperdo la solitudine nel mare dei ricordi
Scrivo la nostra storia nel taccuino delle fiabe
Con la conca delle mani e il calice degli occhi
colmi d’amore
Eletta sono per te
Nell’attesa domani di riaccompagnarti in cielo
Alla scuola degli Angeli
Margherita Pizzeghello

ORARIO D’USCITA
Orario d’uscita. Sono le quattro e sei stanca. Hai raccolto parole, dispensato sorrisi, consolato pianti, calmato animi irrequieti e mediato litigi, sollevato in braccio, hai alzato troppo la voce, hai corso, sei stata seduta per terra, hai ascoltato qualcuno e ti sei dimenticata di altri , hai mangiato alzandoti e sedendoti ogni minuto per versare acqua, tagliare, incoraggiare qualcuno e frenare altri; hai giocato, hai cantato, hai compilato schede. Hai osservato, ti sei arrabbiata, ti sei intenerita. Hai pulito, spostato mobili, ti sei sporcata le mani ripetutamente. Hai letto storie mentre qualcuno ti guardava rapito e altri si facevano i fatti loro.
E ora, quando quasi tutti i bambini se ne sono andati, ti siedi a chiacchierare con i pochi rimasti. Stanca e un po’ ricurva.
Ma c’è una piccola manina che ti tiene da dietro, che sembra dirti “mi vai bene così”, che sembra voler rimanere attaccata a te ancora per un poco…
Ed è per quella manina lì e per tutte le altre che esci felice e che domani ti verrà voglia di tornare a lavorare.
Questa mattina mia nonna mi ha chiamato per dirmi che non potevamo vederci per il nostro consueto appuntamento settimanale perché doveva andare a Bergamo “a trovare i suoi morti”.
Ho sorriso all’idea di essere bidonata da una novantasettenne e per di più di essere lasciata a piedi per una visita “ai suoi morti”.
Per mia fortuna io ho ancora poca gente da andare a trovare al cimitero. Ma c’è una differenza sostanziale. Io al cimitero ci vado molto, molto raramente mentre per lei è un po’ un rituale. I mei morti sono da qualche parte della mia anima e sono il dolore che talvolta mi fa sentire il cuore gonfio e pesante. I suoi morti sono un conforto. Sono una preghiera da recitare, un pensiero per quando qualcosa nelle giornate gira storto, sono una compagnia.
I miei morti non so dove siano e quando mi capita di immaginarli da qualche parte l’angoscia del dubbio è così forte da spingermi a scacciare ogni pensiero. I suoi morti sono dove lei sa e l’aspettano. E questa è la sua certezza.
Francesca Sala

LE GEMME SBUCATE DAI RAMI
Le gemme sbucate dai rami sono avide di tepore. Mi siedo sulla panchina, fisso l’ orizzonte senza aspettative su di me, sugli altri, sul mondo e accetto le incongruenze.
Amore e amicizia diventano più potenti una volta persi, quasi indispensabili: i rimorsi sembrano macigni pronti a rotolare sul sentiero della vita.
Costanza Sangalli

MI TOCCA CONTINUARE A VIVERE
Assenzio Vespucci era in ritardo per l’appuntamento con il supervisore del suo nuovo romanzo, attesissimo dal pubblico dopo il successo del libro precedente. Ormai il manoscritto era quasi del tutto ultimato. Mancava solo qualche limatura qua e là, ma si trattava di interventi minimi, dal momento che Vespucci era solito fare un lavoro certosino che lasciava ben poco margine di intervento ai responsabili della casa editrice che seguivano la genesi dei suoi libri. Abituato a vivere in un paesino di montagna dove conduceva una vita tranquilla e ritirata, Vespucci si sentiva spaesato nella metropoli dove aveva sede la casa editrice. La perdita del senso delle distanze e del tempo in quella città sconfinata gli faceva provare un misto di impotenza e smarrimento. Vespucci ragionava sul suo stato d’animo, per trovare il modo di scriverne, mentre percorreva un viale cittadino a bordo di un tram. All’improvviso sentì la sirena di un’ambulanza, aprì gli occhi e si ritrovò nel suo letto. Era la sveglia. “Ho sognato di essere uno scrittore”, pensò “e invece, ora che sono sveglio, mi tocca continuare a vivere”.

NEMMENO QUELLA SERA
Era in piedi di fronte a un pubblico invisibile. Chi, di preciso, era in piedi non importa: un uomo qualunque. Solo lui vedeva gli spiriti che prendevano posto nel prato al limitare del bosco, chi da solo e chi con la fidanzata, chi formando capannelli chiassosi e chi attendendo silenzioso e compassato. Fate e elfi si stavano sedendo qua e là di fronte a lui. Non sapeva se vederli davvero – se accettare di vederli – o non vederli, e andarsene come se quello spettacolo di fanciulle con ali di farfalla e mostriciattoli dalle orecchie appuntite fosse un sogno a occhi aperti. Elfi e fate volevano che quella sera fosse il loro narratore di storie spettrali, amorose e surreali, ma lui passava di là per caso e non sapeva raccontare. Siccome non era capace di vivere, non era mai stato capace nemmeno di narrare. Gli mancava la materia prima, diceva. Imbambolato, anche quel giorno non seppe cosa dire, così gli spiritelli si spazientirono e svanirono nel nulla. Convinto di avere avuto un’allucinazione, non visse e non narrò nemmeno quella sera.
Luigi Siviero

NULLA DI NUOVO
“L’ho sempre sostenuto anch’io”, esclamò Phohp, “anche se all’inizio c’era ben poco da raccontare, e a dire il vero anche da vivere, toccava attendere, e attendere e ancora attendere per tutti quanti questi milioni di anni che non passavano mai, e non sapevi cosa fare perché era buio che le stelle non si erano ancora accese, poi del raccontare non c’era nemmeno l’idea, perché non solo non c’era nessuno a cui poter raccontare qualcosa, e se c’era comunque non lo si vedeva, ma neanche c’era niente da raccontare in quel buio pesto nero come la pece, la pece di oggi, intendo, che allora non l’avevano ancora inventata, perché in quel buio nero nero non c’era proprio dentro niente neanche per viverci un poco noialtri, che neanche i solitari avevano ancora inventato, o la settimana enigmistica, anzi nemmeno la semplice settimana, addirittura… (segue monologo di 189.656.981 parole).

PAPIRA
Oltre il settimo deserto, che mai piede d’uomo riuscì a varcare, pure sorge Papira, città dalle mille forme. Il visitatore che, inspiegabilmente, giunge a percorrerne i vicoli brulicanti di vita, troverà edifici e luoghi a volte familiari, altre volte insoliti e persino stupefacenti, e mentre incede avvertirà la sensazione crescente che il suo percorso sia come già stato deciso, che la decisione di svoltare a destra oppure a sinistra sia già stata presa a sua insaputa, per fargli incontrare proprio quel personaggio che ora gli attraversa la strada. Non importa il percorso che farà: non ritroverà mai due volte gli stessi luoghi, e percorrendo e ripercorrendo in su e in giù vicoli, viali, cortili, piazze, ogni volta Papira si mostrerà a lui in forme sempre inedite. Gli architetti di Papira l’hanno modellata così, e mai l’hanno abitata, nella consapevolezza del suo effimero trasformarsi, dell’impermanenza sperimentata nei loro precedenti percorsi. Pure, l’immenso fascino di Papira ha catturato i loro cuori, ed essi sempre vi ritornano per edificare sempre nuovi quartieri dove prima dei tuoi sono andati a smarrirsi i loro passi.
Andrea Steffanoni

MASCHERE
Entro al lavoro vestito di bianco e uso due gobbe e un naso adunco per proteggermi da contraddizioni e nemici improbabili.
Esco dal lavoro occhialuto, vestendo di un verde striato di giallo e di tanta ironia.
Per i passatempi preferisco le sottomarche di scampoli variopinti, cuciti l’uno con l’altro, e la battuta pronta.
Le serate con gli amici? Be’, rigorosamente tricorno e codino, abito marrone bordato di rosso, come le calze del resto, e panciotto giallo e il calice alzato.
Codino alla francese e calze a strisce solo qualche volta, quando si va a cozzare contro gli spacconi.
Ignoro quelli col pastrano nero e quelli con la livrea.
Di tanto in tanto provo a mettere i calzoni corti e a portare il bastone ma non sono furbo, non fa per me.
La mia vita è piena di maschere. Se mi da fastidio? No, a casa ci sei tu: la mia Colombina.

VIVERE SUL FILO
Mi sento vivo solo qui, in equilibrio precario senza poggiare i piedi per terra, a camminare sull’unico sentiero per cui valga la pena raggiungere l’arrivo.
Di tanto in tanto vado un po’ di qua. Quanto basta a sfidare le forze che vorrebbero riportarmi a terra e farmi crollare per sempre. Quel poco che serve a fare un po’ di “show”, a beccarmi qualche “wow”.
Mi piace indugiare un po’ anche di là. Quel che basta per farli rimanere a bocca aperta col fiato sospeso.
E poi, fatto un po’ il buffone, dritto per la mia strada che è solo la mia. Sono solo qua sopra a camminare, a vivere puntando sulla vita stessa e senza protezioni o seconde occasioni; gli altri all’esterno, fermi, a guardare, a provare solo un riflesso di vita. A desiderare di essere quassù mentre i piedi poggiano laggiù. La vita è estremista. A me ha chiesto di essere equilibrista.
Massimo Tivoli

TOC TOC
Un uomo è in piedi davanti alla porta di casa, lo vedi dallo spioncino. È triste in volto e ha un aspetto malandato.
“Non lo conosco, non mi interessa. Faccio conto di non essere a casa” pensi strofinandoti il braccio sinistro mentre ti allontani dalla porta.
Toc toc
Non può vederti, non può sfondare la porta per come è ridotto. “Che bussi quanto vuole! Non sono obbligato ad aiutare nessuno con tutti i malviventi che ci sono in giro!” continui a rassicurarti.
Bussa ancora una volta e passi la mano dietro la nuca, lo fai sempre quando ti senti in colpa.
“In colpa di cosa? È lui che si è ridotto in quello stato; io merito di essere in casa come lui merita di essere in strada. Probabilmente è un drogato o un ladro. Io lavoro sodo e ho sempre abitato in un quartiere tranquillo.”
All’improvviso inspiri profondamente e ti aggrappi al tuo modesto coraggio: “Non c’è nessuno! Va’ via!” butti fuori con il tono più fermo che hai. Nessuna risposta, nessun toc toc, solo un tonfo.

PERCHÈ?
Bella domanda!
Potrei lasciare solo il titolo, forse sarebbe meglio, forse sarebbe l’unica cosa non banale che si possa scrivere.
Aspetta, aspetta! È un avverbio interrogativo! A pensarci, però, il fatto che questo possa non essere una banalità è un po’ deprimente.
Perché ho appena scritto questa frase? Voi non potete credere alla buona fede di uno scrittore ma non è retorica, non è un pensiero già compiuto… mentre scrivo queste parole me lo sto ancora chiedendo.
Voglio comunicare con voi? Con voi chi? E perché comunicare senza sapere chi siete? (Chi vi conosce?)
Forse il presupposto è sbagliato, forse non tutta la scrittura è comunicazione: finché non pubblico quello che sto scrivendo sono da solo davanti ad una tastiera.
Mentre scrivo sento le parole con il mio tono di voce, mi sembra un accavallarsi di lettura e scrittura senza sapere cosa venga prima.
Sono al punto di partenza; anche ammettendo che non voglio comunicare con nessuno, ammettendo che sono solo, perché scrivere?
Questo testo è e rimarrà un corpo estraneo e sconosciuto tanto a me quanto a voi.
Francesco Maria Trinchese

STRINGO UN SORRISO NELLA MIA DESTRA
Stringo un sorriso nella mia destra, l’ho inseguito caparbio per le vie della città, più volte mi è scivolato fra le dita, hai presente quanto siano sfuggenti i sorrisi? Spesso si rifugiava sui rami più alti degli alberi, io sotto, paziente, predatore implacabile. Ho poi scavalcato cancelli e rischiato d’essere investito più volte ma infine l’ho afferrato; ora stringo un sorriso nella mia destra, hai presente quanto fremano, pulsino e solletichino i sorrisi? Specie quando li stringi tra le mani. Certo non potrò tenerlo a lungo con me, non esiste contenitore per sorrisi. Lo stringo nella mia destra e ne godo il calore piangendo. Prima o poi sarò vinto dal sonno e mi sfuggirà, volerà via e ne serberò il dolcissimo ricordo. Forse ci rincontreremo, forse no, forse tornerà a salutarmi, la notte, nei sogni.

Le nubi di ieri sono un ricordo. Solo un ricordo tenue, le nubi di ieri non c’erano, le ho immaginate, col pugno di mosche e l’arabesco scolpito nel muro. Sì, sì, lo so, ciò che è veramente reale è solo il chiodo che ho piantato in petto, quello sì. L’ho comprato io stesso, “Un chiodo, per favore”, “Uno solo?”, “Basterà, ma bello grosso e robusto, di quelli che i carpentieri piantano nel cemento per stender la lenza, quant’è?”, “Nulla, si figuri, per lei e per ciò che ne farà non posso chiederle nulla, piuttosto non le servirebbe un martello robusto?”, “No, grazie, sono anni che mi percuoto il petto con il palmo, guardi qui che callo…”. Nulla rimane dei sogni, nulla resta della realtà. Il sole e la pioggia e l’arcobaleno, il vento e i brividi, il fuoco e il sangue. Pesci che guizzano nella mia mente e schizzi e schizzi e un forte odore di mare. E un insano desiderio d’amare.
Rosario Vitale